Tradurre il proprio marchio in Cina?

FACCIAMO UN PO' DI CHIAREZZA

Tra le tante problematiche che le aziende occidentali si trovano a dover affrontare in Cina c’è quella del nome di marca: i grandi marchi internazionali sono entrati nel mercato cinese puntando sulla forza del loro nome.

Ma se questo può ancora funzionare per i grandi marchi del lusso ad esempio, può diventare rischioso per un’azienda meno conosciuta.

Cosa fare quindi?

In cinese l’alfabeto non esiste; esistono milioni di simboli che, da soli o abbinati, esprimono dei concetti. Ciò che distanzia il cinese dalle lingue europee, oltre alla quasi totale assenza di grammatica, è che i simboli contengono sia il significante che il significato.

Le nostre lettere dell’alfabeto contengono solo il significante (che grossolanamente sarebbe il suono) ma non hanno alcun significato se scritte da sole; gli ideogrammi cinesi non solo contengono il significante ma evocano un’immagine, un concetto, significano appunto qualcosa. Per questo motivo nella comunicazione ci si scontra proprio con il problema di tradurre i nostri marchi, headline e payoff, in modo corretto. Risulta infatti difficile mantenere la stessa logica perché occorre uscire dagli schemi del linguaggio a cui noi siamo abituati.

Alcuni esempi pratici:

Traduzione fonetica: anche se un nome può essere tradotto in caratteri cinesi non significa che questo assuma automaticamente un significato comprensibile per un consumatore cinse (Vescovi, 2011). Nella maggior parte dei casi i marchi vengono tradotti foneticamente: un esempio è quello di Parmalat che è diventata “Pa-ma-la-te” 帕玛拉特 richiamando appunto il suono originale.

Lo stesso ha fatto Trussardi tradotto in “Te-lu-sa-er-di” 特鲁萨尔迪 e FIAT, “Fei Ya Te” 菲亚特.

Il problema in questo caso è che la fonetica va a discapito del contenuto, ovvero il rischio è quello di non riuscire a posizionarsi nella mente dei consumatori perché la traduzione del marchio non significa nulla, o peggio significa cose senza senso. 

Traduzione del Significato: un’altra opzione è quella di tradurre il significato (per quei marchi che hanno effettivamente un significato). E’ l’esempio di Volkswagen, in tedesco “l’automobile del popolo” che incontra perfettamente la cultura cinese. Il marchio è stato tradotto come “Dazhonqiche” 大众汽车.

Quando la traduzione del significato richiama anche foneticamente il nome tradizionale del marchio, beh allora l’azienda può dirsi fortunata; come Mercedes Benz tradotta come ” Ben Chi” 奔驰 che significa “rapida e veloce” e si avvicina al suono “Benz”. Lo stesso vale per Lego che in danese significa “giocare bene” e in Cina è diventato “Legao” 乐高 cioè “divertimento superiore” (Pietrasanta, 2009).

Ma l’esempio più famoso riguarda Coca Cola, tradotto coi caratteri “kekou kele”可口可乐 che non solo è riuscita a tradursi foneticamente, ma anche a veicolare un significato preciso “kekou” cioè cuono da bere e “kele” gioioso, contento.  

Tradurre il marchio è quindi il primo passo per posizionarsi sul mercato cinese e nell’immaginario dei consumatori permettendo una facile memorizzazione anche e soprattutto attraverso la forza iconica di un marchio.

tradurre il marchio in Cina

ph: www.coca-cola.com/cn

ph: logo Parmalat in cinese

ph: www.fiat.com/cn

Author: ICIDE – International Center of Italian Design